Proprietario del terreno e concorso nel reato di smaltimento rifiuti Cass. Pen. N. 38840 del 20/09/2016

In altri termini, dunque, se è vero che, in materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva, attesa l’insussistenza di alcuna posizione di garanzia, nei confronti di chi abbia la disponibilità di un’area sulla quale altri abbiano abbandonato rifiuti per non essersi questi attivato per la loro rimozione, deve purtuttavia ritenersi configurabile la responsabilità del proprietario dell’area nel caso in cui – come nella fattispecie in esame – risulti accertato il concorso, a qualunque titolo, del possessore del fondo con gli autori del fatto ovvero una condotta di compartecipazione agevolatrice.

a cura

Cav. Avv. Rosa Bertuzzi

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    1. Con sentenza emessa in data 27/05/2015, depositata in data 31/07/2015, il Tribunale di Cassino dichiarava l’imputato colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, per aver realizzato un deposito incontrollato di rifiuti speciali non pericolosi sul nudo terreno, in relazione a fatti accertati in data (OMISSIS), condannandolo alla pena di Euro 10.000,00 di ammenda.
    2. Ha proposto ricorso D.A.C.G. personalmente, impugnando la sentenza predetta con cui deduce un unico, articolato, motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

    2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all’art. 606 c.p.p. , lett. b), in relazione al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256.

    In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, il giudice avrebbe individuato in tale D.G. l’esecutore materiale dello sversamento nonchè dello spandimento e livellamento dei rifiuti, ossia di colui che aveva posto materialmente in essere il reato; al ricorrente è stata imputata la responsabilità quale amministratore unico della società proprietaria dell’area sottoposta a sequestro e su cui erano stati rinvenuti i materiali classificati quali rifiuti non pericolosi, ciò in base all’assunto che questi risponderebbe a titolo di omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti – come nel caso di specie, dell’appaltatore – che abbiano a loro volta posto in essere la condotta di abbandono; egli risponderebbe del reato commesso materialmente dai titolari delle ditte appaltatrici anche solo a titolo di dolo eventuale o di colpa; sostiene il ricorrente che il fatto non sarebbe imputabile soggettivamente al medesimo in quanto attribuitogli sulla base di una responsabilità di tipo omissivo; l’errore sarebbe consistito nell’aver ritenuto che la funzione sociale della proprietà possa determinare una responsabilità omissiva in capo al proprietario, laddove la stessa sussiste solo quando si articoli in obblighi giuridici positivi e determinati, atti ad impedire l’evento lesivo del bene tutelato; la fattispecie penale non prevede che il comportamento omissivo del proprietario sia sufficiente a giustificare il concorso colposo del medesimo nella violazione della normativa sui rifiuti;

    nella specie, si sarebbe in presenza di un deposito temporaneo di materiali relativi ad attività edificatoria che, contrattualmente ciascuna ditta operante nel cantiere – compresa la società di costruzioni del D.G. – doveva provvedere in proprio e periodicamente a smaltire o recuperare; non vi sarebbero peraltro elementi idonei ad affermare che sull’area qualificata come “area servizi” fosse stato realizzato un piazzale asfaltato, attraverso lo spandimento e la miscelazione di rifiuti della cui realizzazione ricorrente abbia accettato il rischio; conclusivamente, non vi sarebbe alcun obbligo del proprietario del suolo di intervenire nella gestione dei rifiuti non pericolosi prodotti dall’esecutore e connessi all’attività edificatoria, nè alcun obbligo di garanzia sul medesimo gravante.

    Motivi della decisione

    1. Il ricorso dev’essere rigettato perchè infondato.
    2. Ed invero, il tribunale motiva, in punto di responsabilità del ricorrente, non solo e non tanto prospettando una responsabilità a titolo di dolo eventuale o di culpa in vigilando rispetto all’operato dei dipendenti dell’appaltatore (rectius, delle ditte appaltatrici contestualmente operanti sull’area ove era in corso l’attività lottizzatoria), ma soprattutto (v. punti 4 e 7 della sentenza) a titolo di concorso nel reato concorsuale posto in essere materialmente da questi ultimi; si legge infatti nella sentenza impugnata che, il ricorrente, quale legale rappresentante della società proprietaria dei suoli, era a conoscenza della realizzazione di un’ampia area deputata alla raccolta di rifiuti provenienti dalla demolizione, posto che detta area non risultava casualmente destinata a ricevere i predetti rifiuti, ma a motivo del successivo spianamento e spandimento doveva essere necessariamente destinata alla realizzazione di nuovi interventi edilizi in senso lato; detta finalità non poteva essere sconosciuta al titolare della DEA che, nei pressi, stava eseguendo imponenti ed estesi lavori edilizi di lottizzazione interessanti ben 21 lotti; essendo l’intervento edilizio di nuova costruzione, solo una parte dei rifiuti proveniva da attività di lottizzazione.

    Risolutivo, peraltro, nel senso di destituire di fondamento la prospettazione difensiva, è quanto chiaramente affermato al punto 7 della sentenza impugnata, laddove in particolare si legge che le attività accertate (spandimento e livellamento dei rifiuti per fungere da riempimenti o da base per successivi interventi sul territorio) presupponevano un comando o un’autorizzazione da parte del proprietario del fondo e del titolare dell’impresa, in quanto solo chi abbia interesse all’utilizzo di rifiuti sparsi e livellati al suolo – in primis il proprietario del fondo – in funzione trasformativa della destinazione dello stesso, può autorizzare lo scarico di materiali di scarto che di tale intervento devono costituire la base; donde non poteva essere invocata, sulla base di tali argomentazioni, l’estraneità del ricorrente, titolare dell’impresa, rispetto allo smaltimento dei rifiuti.

    La conferma della responsabilità del ricorrente nel fatto, peraltro, emerge dalle stesse dichiarazioni dell’imputato (v. punto 8 della sentenza) il quale aveva dichiarato che il titolare della ditta STILE, che si occupava dei lavori di urbanizzazione gli aveva chiesto “e lui glielo aveva concesso” che sull’area – che lo stesso ricorrente aveva ammesso non rientrare nell’area della lottizzazione (dunque venendo meno la tesi del deposito preliminare) – fossero in qualche maniera posti questi materiali provenienti solo da nuove costruzioni, da nuove edificazioni e dalle opere di urbanizzazione che stavano compiendo “per conto nostro”. Da qui quindi la corretta affermazione del tribunale sotto il profilo logico secondo cui il ricorrente non solo era stato informato degli sversamenti periodici di rifiuti provenienti dalle attività edili di lottizzazione, ma soprattutto aveva dato il suo specifico assenso alla ditta appaltatrice di eseguire tali scarichi di rifiuti; una condotta, dunque, non solo omissiva – come sostenuto dalla difesa del ricorrente -, ma commissiva e qualificabile in termini concorsuali in quanto espressione di un contributo psicologico al reato materialmente commesso dalle ditte appaltatrici nel suo interesse.

    1. Al cospetto di tale apparato argomentativo, le censure del ricorrente appaiono pertanto prive di pregio in quanto aspecifiche (perchè non si confrontano criticamente con le argomentazioni puntuali ed immuni da vizi logici svolte dal tribunale: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849), ma in ogni caso infondate traducendosi sostanzialmente in un dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto dalla valutazione della prova operata dal tribunale, operazione com’è noto inibita in sede di legittimità.

    Si ribadisce, e non potrebbe essere altrimenti, che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte., v.: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 – dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944). A ciò si aggiunge – con particolare riferimento alle doglianze riguardanti il preteso vizio motivazionale, sebbene non formalmente indicato ma evidente dal tenore dell’impugnazione – che gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudizio valutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l’esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorietà della motivazione solo perchè contrari agli assunti del

    ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell’art. 606 c.p.p. , lett. e), non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l’indagine sull’attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione (tra le tante: Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 – dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961).

    Controllo, in questa sede, agevolmente superato dalla sentenza impugnata che è anche giuridicamente corretta facendo coerente applicazione di principi più volte affermati da questa Corte. Ciò vale in particolare, quanto al tema della responsabilità penale del ricorrente, avendo infatti la Corte fatto buongoverno del principio, più volte affermato, secondo cui in materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 2, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poichè tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione di merito che aveva condannato il proprietario non per la sua qualità di possessore dell’area di deposito, ma per avere questi consapevolmente partecipato all’attività illecita, mettendo a disposizione il terreno per lo smaltimento abusivo di rifiuti derivanti da lavori edili da egli stesso commissionati: Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015 – dep. 29/12/2015, Cucinella e altro, Rv. 266030). In altri termini, dunque, se è vero che, in materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva, attesa l’insussistenza di alcuna posizione di garanzia, nei confronti di chi abbia la disponibilità di un’area sulla quale altri abbiano abbandonato rifiuti per non essersi questi attivato per la loro rimozione, deve purtuttavia ritenersi configurabile la responsabilità del proprietario dell’area nel caso in cui – come nella fattispecie in esame – risulti accertato il concorso, a qualunque titolo, del possessore del fondo con gli autori del fatto ovvero una condotta di compartecipazione agevolatrice (Sez. 3, n. 2477 del 09/10/2007 – dep. 17/01/2008, Marcianò e altri, Rv. 238541).

    1. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

    P.Q.M.

    La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

    Così deciso in Roma, nella sede della Suprema Corte di Cassazione, il 13 luglio 2016.

    Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2016

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