Facebook: donna condannata per aver utilizzato la foto di un’altra persona

“pena concordata di giorni 15 di reclusione, convertita in euro 3.750 di multa, da corrispondersi in 30 rate mensili di pari importo, per il delitto contestatole ai sensi dell’art. 494 cod. pen., per avere utilizzato, per il proprio profilo Facebook, la foto di un’altra persona.”

Integra il reato previsto e punito dall’art. 494 c.p., utilizzare l’immagine di un’altra persona nei profili social come Facebook, Instagram o Twitter, facendo credere così di essere la persona rappresentata nella foto. Per questo, come si evince dalla sentenza sotto riportata emessa dalla Cassazione V penale n.4413 del 30/01/2018 a conferma del Decreto di condanna, concordato con l’imputata con una pena di 15 gg di reclusione convertita in una multa di euro 3750 oltre le spese processuali.

SENTENZA

sul ricorso proposto da: X GLORIA nato il 28/10/1988 a PORDENONE avverso la sentenza del 07/12/2016 del GIP TRIBUNALE di PORDENONE sentita la relazione svolta dal Consigliere ENRICO VITTORIO STANISLAO SCARLINI; lette le conclusioni del PG, nella persona del Sostituto LUCA TAMPIERI, che ha chiesto il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1 – Con sentenza del 7 dicembre 2016, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pordenone applicava a Gloria X la pena concordata di giorni 15 di reclusione, convertita in euro 3.750 di multa, da corrispondersi in 30 rate mensili di pari importo, per il delitto contestatole ai sensi dell’art. 494 cod. pen., per avere utilizzato, per il proprio profilo Facebook, la foto di un’altra persona.

2 – Propone ricorso l’imputata, a mezzo del suo difensore, deducendo, con l’unico motivo, la nullità dell’accordo stipulato fra il pubblico ministero e l’imputata in quanto erroneamente il giudice non aveva consentito di revocarlo a seguito della possibilità sopravvenuta, ad esito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 201/2016 di richiedere, con l’atto di opposizione al decreto penale, la sospensione del procedimento per la messa alla prova. Più precisamente, il giudice non aveva concesso il richiesto termine a difesa ed aveva, invece, accolto l’istanza subordinata, sulla quale si era formato il consenso con il pubblico ministero, di ripartire il pagamento della multa in 30 rate, piuttosto che nelle 18 dell’originario accordo.

3 – Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, nella persona del sostituto Luca Tampieri, chiede il rigetto del ricorso non potendosi ritenere nullo il decreto penale a seguito di modifica normativa, indotta dalla sentenza della Corte costituzionale, successiva alla sua emissione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato.

1 – Il decreto penale emesso nei confronti della ricorrente non era affetto da alcuna nullità visto che era stato emesso il 20 maggio 2016 quando non era stata ancora né pronunciata né pubblicata la sentenza n. 201 della Corte costituzionale, del 6 luglio 2016 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 27 luglio 2016) con la quale si era dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 460, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova. Comunque, il mancato avviso non precludeva all’imputato di formulare istanza di sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 168 bis cod. pen., sussistendone i presupposti, posto che la “messa alla prova” era stata introdotta nell’ordinamento in epoca antecedente, con la legge 28/04/2014 n. 67.

2 – Nel caso concreto, però, l’istanza della difesa, di revoca del consenso al patteggiamento, non si era fondata sulla esplicita richiesta di sospensione del processo per la messa alla prova (sul punto, in senso favorevole alla revoca, si veda Sez. 4, n. 15231 del 08/04/2015, Azzali, Rv. 263151) ma solo sulla richiesta di un termine a difesa per valutarne la convenienza. Così che il giudice avrebbe dovuto ritenere revocato il consenso prestato ai sensi dell’art. 444 e seguenti del codice di rito a fronte della mera eventualità di una diversa scelta processuale (pur con i riflessi sostanziali riconosciuti anche dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 201) che lo stesso imputato doveva ancora vagliare se a lui più favorevole (facendo quindi cadere anche l’ulteriore presupposto della necessità di applicare la lex mitior).

3 – Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

p.q.m.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 10 ottobre 2017.

 

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