numero di cellulare è un dato personale - IL TUO AMICO VIGILE - Polizia Municipale

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Il numero di cellulare rientra certamente tra i dati personali, essendo possibile risalire all'intestatario infatti è definito dato personale, qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale ancor più che accompagnato dalle iniziali della persona.

Corte di Cassazione Sezione 3 Penale
Sentenza del 16 dicembre 2008, n. 46203


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MAIO Guido - Presidente

Dott. TERESI Alfredo - Consigliere

Dott. GENTILE Mario - Consigliere

Dott. MARMO Margherita - Consigliere

Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) MA. AL., N. IL (OMESSO);

avverso SENTENZA del 02/05/2008 CORTE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. AMORESANO SILVIO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. DI POPOLO Angelo, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio per prescrizione, con conferma delle statuizioni civili;

udito il difensore Avv. VENTURI Giancarlo che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

OSSERVA

1) Con sentenza del 25.11.2005 il Tribunale di Roma dichiarava Ma. Al. colpevole del reato di cui alla Legge n. 675 del 1996, articolo 35 comma 2 perche', al fine di recare danno a M. L. diffondeva i suoi dati personali, consistenti nel nome, cognome e numero dell'utenza cellulare, aprendo una casella di posta elettronica con la seguente dicitura "(OMESSO) " (capo a) e del reato di cui all'articolo 660 c.p. in relazione all'articolo 48 c.p. perche', aprendo la casella di posta elettronica di cui al capo a), induceva in errore gli utenti di internet, che, lette le offerte contenute nella stessa, per petulanza o altro biasimevole motivo, contattavano la M. sull'utenza telefonica ivi indicata, recando disturbo o molestia alla stessa (capo e), unificati sotto il vincolo della continuazione, e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione; pena sospesa e non menzione; condannava inoltre il Ma. al risarcimento dei danni, in favore della costituita parte civile, liquidati in euro 10.000,00. Dichiarava infine non doversi procedere nei confronti del medesimo Ma. in ordine ai reati di cui agli articoli 594 e 595 c.p. ascritti ai capi b) e d) per difetto di querela.

Con sentenza del 2.5.2008 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava non doversi procedere nei confronti del Ma. in ordine al reato di cui al capo c) perche' estinto per intervenuta prescrizione, rideterminando la pena per il residuo reato di cui al capo a) in mesi sei di reclusione e riducendo ad euro 6.000,00 la somma liquidata a titolo di risarcimento danni; confermando nel resto.

Disattendendo i rilievi dell'appellante, riteneva la Corte territoriale che il trattamento dei dati personali sensibili senza il consenso dell'interessato, da cui derivi nocumento per la persona offesa, gia' punito ai sensi della Legge n. 675 del 1996, articolo 135, e' ancora punibile a norma del Decreto Legislativo 30 giugno 2003, articolo 167, comma 2, in quanto tra le due fattispecie vi e' un rapporto di continuita' normativa, essendo identici sia l'elemento soggettivo (dolo specifico) sia l'elemento oggettivo (le condotte di comunicazione e diffusione dei dati sensibili sono ora ricomprese nella piu' ampia dizione di trattamento dei dati sensibili; il nocumento per la persona offesa, considerato come circostanza aggravante, e' ora una condizione obiettiva di punibilita').

Assumeva la Corte, poi, che il numero di cellulare rientrasse certamente tra i dati personali, essendo possibile risalire all'intestatario, e che, comunque il Ma. aveva diffuso anche il nome e l'iniziale del cognome (" M. Li. ") della persona offesa.

2) Propone ricorso per cassazione il Ma., a mezzo del difensore.

Premette in fatto che il Ma. in data 27.1.2001, al fine di sbeffeggiare la M. che aveva mutato atteggiamento nei suoi confronti, aveva immesso in rete una sola pagina grafica, contenente il numero di cellulare della M. medesima, ma non i suoi dati personali (il numero di utenza cellulare era svincolato da riferimenti anagrafici, tale non potendosi ritenere il nome " M. Li. ") ed aveva aperto una casella di posta elettronica con indirizzo di fantasia (mai appartenuta alla M.), La pagina grafica, contenente il numero di cellulare della M., non poteva essere vista se non da chi fosse stato a conoscenza del preciso indirizzo internet.

Tanto premesso, denuncia, con il primo motivo, la inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all'articolo 2 c.p., commi 2 e 3, Decreto Legislativo 28 dicembre 2001, n. 467, articolo 13, Legge n. 675 del 1996, articolo 35 nonche' vizio di motivazione.

Con i motivi di appello era stata richiesta l'applicazione della normativa piu' favorevole e cioe' quella che (Decreto Legislativo n. 467 del 2001, articolo 13), modificando la Legge n. 675 del 1996, articolo 35 non prevede piu' come reato la comunicazione o diffusione occasionale e non sistematica dei dati personali, ma solo il trattamento non autorizzato di sistematica raccolta o diffusione dei dati medesimi. La Corte territoriale, ritenendo la continuita' normativa tra la Legge del 1996 e quella del 2003, ha omesso di considerare che tra le due leggi predette era intervenuto il Decreto Legislativo 28 dicembre 2001, n. 467 che non prevedeva piu' come reato la comunicazione o diffusione (ma solo il trattamento) dei dati. Senza alcuna motivazione la Corte non ha applicato tale normativa certamente piu' favorevole. Il Decreto Legislativo n. 196 del 2003 e', invece, entrato in vigore dopo la commissione del fatto e quindi non puo' applicarsi al Ma..

Denuncia poi la violazione dell'articolo 1 c.p., in quanto il solo numero di cellulare non rientra tra i dati personali secondo l'articolo 4 Codice della privacy, lettera b), essendo avulso dalla persona fisica e non essendo possibile, attraverso di esso risalire al titolare dell'utenza per un comune cittadino.

Chiede pertanto l'annullamento della sentenza impugnata, perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato o, in via subordinata, dichiarando la prescrizione del reato con revoca delle statuizioni civili.

3) Il ricorso e', manifestamente infondato.

3.1) Essendo stato il fatto commesso in data 29 gennaio 2001 non c'e' dubbio alcuno che trovi applicazione la Legge n. 675 del 1996, articolo 35 comma 2 (vigente all'epoca).

Tale norma prevedeva che "..chiunque, al fine di trame per se' o per altri profitto o di recare ad altri un danno, comunica o diffonde dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 21, 22, 23 e 24, ovvero del divieto di cui all'articolo 28, comma 3, e' punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni".

L'articolo 35 in questione veniva modificato dal Decreto Legislativo 28 novembre 2001 n. 467, articolo 13 nei seguenti termini "...chiunque, al fine di trame profitto per se' o per altri o di recare ad altri un danno procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 21, 22, 23, 24 e 24 bis, ovvero del divieto di cui all'articolo 28, comma 3, e' punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni".

Secondo il ricorrente l'articolo 13 cit., nel sostituire le parole "comunica o diffonde dati personali" con "procede al trattamento di dati personali" avrebbe reso non piu' rilevante penalmente la semplice diffusione o comunicazione.

La Corte territoriale ha correttamente rilevato che vi e' continuita' normativa tra la fattispecie come delineata originariamente dalla Legge 31 dicembre 1996, n. 675, articolo 35 e le successive modifiche (prima con il Decreto Legislativo n. 467 del 2001, articolo 13 e poi con il Decreto Legislativo n. 196 del 2003).

Assume, infatti, che sono identici sia l'elemento soggettivo caratterizzato dal dolo specifico, sia gli elementi oggetti vi, in quanto le condotte di comunicazione e diffusione dei dati sensibili sono ora ricomprese nella piu' ampia dizione di trattamento...",

Risulta evidente, pertanto, che la Corte territoriale raffronta, sotto il profilo che qui interessa, la condotta quale prevista dall'originario della Legge n. 675 del 1996, articolo 35 ("comunica o diffonde dati personali") e quella ("procede al trattamento di dati personali") prevista sia dal Decreto Legislativo n. 467 del 2001, articolo 13 che dal Decreto Legislativo n. 196 del 2003 articolo 167. Non vi e', percio', alcuna contraddittorieta' nella motivazione della sentenza impugnata. Come gia' affermato da questa Corte, il Decreto Legislativo 28 dicembre 2001, n. 467, articolo 13 ha modificato la Legge n. 675 del 1996 ...in modo irrilevante per la concreta fattispecie, laddove ha sostituito alla condotta incriminata della "comunicazione" o "diffusione" una condotta piu' ampia di "trattamento dei dati personali", che e' comprensiva anche della comunicazione e della diffusione" (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 28680 del 26.3.2004 - Modena).

La correttezza di tale interpretazione si ricava dalla stessa Legge n. 675 del 1996, articolo 1 (come aggiornato a seguito del Decreto Legislativo 28 dicembre 2001, n. 467) che definisce "trattamento" "qualunque operazione o complesso di operazioni, svolta con o senza l'ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati" (comma 2 lettera b). "Comunicazione" viene definita, poi, come "il dare conoscenza dei dati personali a uno o piu' soggetti determinati diversi dall'interessato in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione (comma 2, lettera g) e "diffusione" il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione (comma 2, lettera h). Palesemente, con il Decreto Legislativo 28 dicembre 2001, n. 467 si volle ampliare, e non certo restringere, la sfera di punibilita' delle condotte, a tutela e rispetto dei diritti, delle liberta' fondamentali, nonche' della dignita' delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all'identita' personale (Legge n. 675 del 1996, articolo 1 comma 1 e Decreto Legislativo n. 467 del 2001); sicche' nella piu' ampia dizione di "trattamento" e' ricompresa, indiscutibilmente, anche la "comunicazione" e "diffusione".

3.2) Manifestamente infondato e' anche il secondo motivo, essendo indubitabile che il numero di cellulare rientri tra i dati personali.

Lo stesso articolo 1, comma 2, lettera c) definisce come dato personale "qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale. L'indicazione " M. Li. ", accompagnata dal numero di cellulare, rendeva identificabile la Ma..

3.3) Stante la manifesta infondatezza del ricorso non puo' essere dichiarata la prescrizione, maturata in data 29.7.2008 (e quindi successivamente alla emissione della sentenza impugnata).

Questa Corte si e' pronunciata piu' volte sul tema anche a sezioni unite (per ultimo sent. n. 23428/2005 - Bracale).

Si e' ritenuto cosi' che le cause di inammissibilita' originaria riconducibili all'articolo 591 c.p.p., comma 1, lettera a), b) e c) privano il ricorso dei requisiti minimi perche' l'atto possa avere natura impugnatoria. Si e' in presenza, infatti, di "un simulacro di gravame che il provvedimento che ne dichiara l'inammissibilita', per sua natura dichiarativo, rimuove dalla realta' giuridica fin dal momento della sua origine".

Anche per le cause di inammissibilita' previste dall'articolo 606 c.p.p., comma 3 la sentenza a sez. un. 30.6.1999 - Piepoli, superando gli approdi interpretativi precedenti, ha considerato come causa di inammissibilita' originaria del ricorso i motivi non consentiti e la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello. Infine, con ulteriore pronuncia (sez. un. 22.11.2000 - De Luca) e' stato enunciato il principio che l'inammissibilita' del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilita' di rilevare e dichiarare le cause di non punibilita' a norma dell'articolo 129 c.p.p..

La conclusione e' nel senso "che la manifesta infondatezza resta definita sulla base di una cognizione sommaria con effetti di stretto diritto processuale, consistenti nel precludere l'accesso al rapporto di impugnazione. E cio' al fine di evitare che tale rapporto venga utilizzato come strumento, non soltanto per procrastinare la formazione del titolo esecutivo, ma anche per conseguire effetti di favore di ordine sostanziale in presenza di un gravame soltanto apparente.". La manifesta infondatezza va, infatti, annoverata tra le cause di inammissibilita' intrinseche del ricorso. Operando una sintesi delle precedenti decisioni, la pronuncia a sez. un. n. 23428/05, infine, ha enunciato il condivisibile principio che l'intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido perche' contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (articolo 591 c.p.p., comma 1, con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, e articolo 606 c.p.p., comma 3), precluda ogni possibilita' sia di far valere una causa di non punibilita' precedentemente maturata sia di rilevarla d'ufficio.

L'intrinseca incapacita' dell'atto invalido di accedere davanti al giudice dell'impugnazione viene a tradursi in una vera e propria absolutio ab instantia, derivante da precise sequenze procedimentali, che siano in grado di assegnare alle cause estintive gia' maturate una loro effettivita' sul piano giuridico, divenendo altrimenti fatti storicamente verificatisi, ma giuridicamente indifferenti per essersi gia' formato il giudicato sostanziale".

3.4) Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche', in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilita', al versamento in favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in euro 1.000,00, ai sensi dell'articolo 616 c.p.p..

Vanno confermate le statuizioni civili ed il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla costituita parte civile, che liquida, come da nota specifica, in euro 2.230,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, nonche' alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile che liquida in euro 2.230,00, oltre accessori di legge.




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