reato di falso ideologico commesso dai soggetti ai quali la pubblica amministrazione ha affidato la funzione di attestare l'orario di lavoro dei dipendenti - IL TUO AMICO VIGILE - Polizia Municipale

Vai ai contenuti

Menu principale:

Informa e Forma > Varie > archivio


CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

Sentenza 10 settembre 2008, n. 35058


Svolgimento del processo

La Corte d'Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Paola condannò i ricorrenti, operai forestali del "Consorzio di bonifica Valle del Lao", per il reato di falso e tentata truffa di cui agli artt. 81, 100, 479-493, 640, primo e secondo comma, 56, 110, 640, primo e secondo comma, cp, per aver fato risultare, in concorso o inducendo in errore i caposquadra, la propria presenza sul posto di lavoro mentre invece si trovavano altrove, come accertato da personale di P.G. in una lunga serie di giornate lavorative tra il 1996 ed il 2001, tutte riportate nel capo d'imputazione.

Con un unico ricorso gli imputati chiedono duplice motivo.

In primo luogo per errata applicazione della presenza che attestano l'orario di inizio e fine dell'attività lavorativa non possono essere considerati atti pubblici".

A sostegno della tesi, viene richiamata la decisione delle Sezioni unite 10 maggio 2006, n. 15983, il cui principio di diritto a parere dei ricorrenti deve essere applicato anche al caso, come quello in esame in cui non è il lavoratore che autocertifica il suo lavoro timbrando il cartellino di presenza, ma tale attestazione viene formulata dal capo-squadra. Ciò perché "la mera qualifica di pubblico ufficiale dell'impiegato capo-squadra ed in generale del pubblico dipendente che attesti falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, non puoi costituire l'unico presupposto sul quale fondare la sussistenza del reato di falso ideologico". Il secondo motivo contiene più censure.

Si sostiene che la prova della falsificazione non è stata raggiunta perché ad eccezione di un unico foglio di presenza del mese di ottobre 2001, non sono stati acquisiti al processo gli altri atti falsificati, così violando l'art. 194 cpp.

Inoltre si sostiene che il Consorzio non avrebbe subito alcun danno perché gli imputati hanno portato a termine tutti i lavori previsti dalle progettazioni e l'ente non ha dovuto far ricorso ad ulteriori spese per la realizzazione delle opere programmate.

Con autonomo ricorso a sua firma chiede l'annullamento della sentenza riproponendo la tesi per cui i fogli di presenza non hanno natura di atto pubblico. Nella parte finale del ricorso, si aggiunge peraltro che, per quanto attiene alla truffa, la Corte d'Appello ha omesso di individuare sia gli artifici che i raggiri e sia soprattutto il danno cagionato al Consorzio.

Motivi della decisione

I ricorrenti richiamano la nota sentenza delle Sezioni unite, 11 aprile 2006, n. 15983. Deve ricordarsi che tale sentenza affermò: "non integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, in quanto documenti che non hanno natura di atto pubblico, ma di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che, peraltro, non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla P.A. (Fattispecie in cui gli imputali, pubblici dipendenti, si erano allontanati dal luogo di lavoro senza far risultare tale allontanamento, non dovuto a ragioni di servizio, attraverso la prescritta marcatura del cartellino. Il caso riguardava dipendenti della Sovrintendenza ai beni culturali ed ambientali di Agrigento, che erano imputati (anche) di falso ideologico per avere falsamente attestato la loro presenza al lavoro nell'ufficio regionale presso il quale prestavano servizio, allontanandosene, invece, senza formale permesso e sottoscrivendo fogli di presenza e timbrando il proprio cartellino presso l'apposito orologio marcatempo facendo così risultare orari di entrata e di uscita non rispondenti a quelli effettivi. Le Sezioni unite ritennero che questo comportamento non integrasse il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 479 cp), in quanto nel caso al loro esame mancavano gli estremi dell'atto pubblico, tanto con riferimento alla qualità del soggetto, quanto sul piano del documento. I lavoratori dipendenti di enti pubblici che certificano il proprio orario di ingresso e di uscita dal lavoro non sono pubblici ufficiali quando svolgono tale funzione e l'atto che compiono non involge una funzione dichiarativa o attestativa o di volontà riferibile alla pubblica amministrazione.


Il caso in esame, come mette ben in evidenza la sentenza impugnata, è del tutto diverso perché gli imputati concorrono nel reato di falso ideologico commesso dai soggetti ai quali la pubblica amministrazione ha affidato la funzione di attestare l'orario di lavoro dei dipendenti. L'atto in cui si è concretizzato il fatto reato pertanto, sia per la qualifica del soggetto che lo ha posto in essere, che con riferimento alla sua natura, è atto pubblico. Del resto le Sezioni unite, nel chiudere la sentenza del 2006, ebbero cura di precisare "torna opportuno da ultimo rilevare che ove poi tali attestazioni del pubblico dipendente siano utilizzate, recepite in atti della pubblica amministrazione a loro volta attestativi, dichiarativi o di volontà della stessa, tanto può dar luogo ad ipotesi di falso per induzione". Ciò significa che era ben chiaro, alle Sezioni unite la differenza tra l'atto autocertificatorio posto in essere dal dipendente e quello, riportabile alla volontà della pubblica amministrazione ed avente funzione di attestazione, posto in essere dal soggetto al quale la amministrazione pubblica affida compiti di controllo del lavoro dei dipendenti. La natura pubblicistica ai fini penali di questo atto non può essere discussa e il comportamento induttivo o concorrente del dipendente pubblico nella sua formazione comportala corresponsabilità. Anche gli altri motivi sono manifestamente infondati.

Quanto alla completezza della prova, la questione posta è puramente di merito e comunque è formulata in modo contraddittorio, riconoscendo che almeno in parte in fogli di presenza sono stati acquisiti.

Assolutamente infondato è il motivo con il quale si sostiene che il Consorzio non avrebbe subito alcun danno perché gli imputati hanno portato a termine tutti i lavori previsti dalle progettazioni e l'ente non ha dovuto far ricorso ad ulteriori spese per la realizzazione delle opere programmate. L'afférmazione è indimostrata e priva di qualsiasi riscontro. Essa è comunque del tutto inconsistente, posto che non si tratta di liberi professionisti che devono fornire un risultato ma di dipendenti che devono fornire, con regolarità e puntualità, una prestazione di lavoro subordinato, implicante, tra gli altri obblighi da adempiere, anche quello del rispetto dell'orario. Infine, infondate sono anche le considerazioni svolte nel ricorso singolo, concernenti gli artifizi e i raggiri, che sicuramente sussistono come ha costantemente affermato questa Corte, anche a Sezioni unite, in situazioni del tutto sovrapponibili sotto questo profilo, e il danno. A quest'ultimo riguardo, deve ricordarsi che in presenza di tale eccezione questa stessa Sezione ha precisato: "il palese ingiustificato protrarsi della assenza dal posto di lavoro dell'imputato, ha realizzato una sospensione di fatto del rapporto di impiego che ha necessariamente prodotto un danno patrimoniale per l'ente, chiamato a retribuire una "frazione" effettuata, e con l'ulteriore danno (patrimoniale e della prestazione giornaliere non d'immagine) correlato alla mancata presenza del dipendente nel presidio lavorativo, rimasto così sguarnito della corrispondente unità di lavoro. Circostanze tutte, quelle esposte, al cui risalto, agli effetti della configurazione del reato contestato, non può certo far velo la eventuale difficoltà di quantificazione del danno, considerato che, nella specie, la relativa sussistenza ed apprezzabilità in termini economici è a reputarsi sussistente al di là di ogni ragionevole dubbio" (Cass., Sez. II, 6 ottobre 2006, n. 34210). I ricorsi sono pertanto inammissibili. All'inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché al pagamento della somma indicata in dispositivo alla Cassa delle ammende. Quest'ultima condanna si impone in quanto, nel caso in esame, non vi sono ragioni idonee ad escludere la colpa dei ricorrenti nella proposizione di un ricorso inammissibile.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno di essi al versamento della somma di 1.000,00 euro alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 24 giugno 2008 Il Consigliere estensore

Depositata in cancelleria il 10 settembre 2008.



Iscriviti alla newsletter
E-mail
Nome:
App.polizia? quale
Dove

Privacy

 
Torna ai contenuti | Torna al menu